sabato 10 gennaio 2015

Guardando lui...

Ogni uomo che piscia finisce col fissarsi l'uccello. E ci sono pisciate che non durano poco. Lo guardi così, senza neanche pensarci. Lo guardi per prendere la mira, se sei uno di quelli che prendono la mira; lo guardi perché dove dovresti guardare? In alto come fa chi va di fretta o si dà arie di pensatore? O di lato come fanno i paranoici? Allora guardi giù e te lo fissi, così, per quelle decine di secondi. Per lo più non ci pensi. Sgrulli e richiudi. Ma ci sono volte che la mente ti si apre e ti scatta una strana presa di coscienza. E lo vedi. Ma i pensieri che ti scattano non sono quelli che ti immagini, di valutazione, misurazione. No. In quei momenti avviene qualcosa di strano. Avviene che ti sembra che lui abbia un'anima, una sua vita. E anche se lo vedi che non ha gli occhi hai la netta sensazione che il tuo uccello ti stia fissando, con fare interrogativo e forse un po' severo. E capita che ti senti tu, d'improvviso, il suo uccello. Vi guardate. E nessuno dei due parla. Forse per paura. Forse per vergogna. E allora lo rimetti dentro e la sensazione che ti rimana è quella di avere nelle mutande qualcosa che, per qualche motivo, ti porta rancore.

giovedì 8 gennaio 2015

Quando succede una tragedia io voglio.

Quando succede una tragedia io voglio tutto. Voglio le immagini della sparatoria, lo sguardo del sospettato in manette, il pianto della madre, le interviste ai parenti. Voglio i commenti sadici della gente comune - quella che confonde la rabbia col coraggio. Voglio la PAURA. Voglio i servizi di due ore, le dirette interminabili fatte di niente, di giornalisti e giornaliste che ripetono sempre: "Siamo qui fuori, davanti alla casa | davanti all'ospedale | sul luogo della tragedia" e aspettano il NULLA di cui mi voglio inebriare. Voglio leggere tutta l'indignazione dell'uomo merda, quello seduto al computer - come sono seduto io - davanti a uno schermo - simile al mio - che scrive: "Vergonga, al rogo, fuori tutti, tutti dentro, adesso basta, diciamo NO!". Voglio dire NO. Ma sempre stando seduto. Perché la diffusione delle notizie moltiplica le opinioni frettolose e le opinioni frettolose si allontanano dalla notizia e diffondono il terrore. Come lo shuttle che vedevo partire da Cape Canaveral da bambino: parte un missile gigante, si libra nell'aria, sparisce all'occhio umano e poi una ripresa aerea (poco importa se è una ricostruzione grafica, voglio sognare!) una ripresa aerea fa vedere la punta che si stacca e prosegue il suo viaggio nell'Ignoto, mentre resta la carcassa morta che ingolferà lo spazio. Non m'importa. Io voglio quello. Voglio la notizia bomba, che si libra nell'etere e in pochi minuti è ormai lontana dall'occhio umano, coperta delle nubi delle opinioni di tutti. E lì, nella nebbia del tutti-dicono-nessuno-sa, la notizia si stacca e prosegue nel buio, lasciandosi dietro la paura. E io VOGLIO AVERE PAURA. La paura è semplice, come i pensieri dei bambini. La paura è PURA, innocente, sempre salva. Voglio rimanere a casa, non mi voglio muovere. Voglio odiare la madre assassina, l'esaltato col cappuccio. Voglio vedere un corpo accasciarsi al suolo e perdermi nel pensiero del suo ultimo sguardo. Voglio avere pietà. Perché ho paura. Se penso esco e mi espongo, se taccio e non guardo mi farò un'idea di quello che è successo. Io voglio piangere l'illustre caduto e condannare la sorte, la mano insanguinata, il sistema fallato. Voglio pietire e indignami. Perché analizzare ci condanna, condannare ci salva. Sempre.
Non voglio uscire.
Voglio aprire una birra.
Bestemmiare più di un dio.
Considerare feccia l'umanità.
Rotolarmi nella mia stessa merda per giorni.
Vedere in faccia l'assassino.
E farmi una bella sega.
Immaginando la giornalista prona sul mio sudicio divano.
Con la luce intermittente che in questo momento sta mandando il suo sudicio servizio.

mercoledì 14 marzo 2012

Teatro...

Quando ti arriva la polvere in gola o ti sanguina il palmo di una mano per le schegge, quando il sudore e lo sporco di fanno buttar via un abito da 200 euro dopo appena dieci serate, allora voglio vedere se la benedici questa vita di stenti che si chiama teatro. Sono stato tanto tempo nell muffa delle sale prove, dei teatri sotto e sopra i cento posti, ad aspettare di dire e fare "il mio", che odoro ancora di bosco autunnale, di gita a fare funghi e castagne. Ma gli unici funghi che ho preso li ho colti nei bagni di quelle stesse sale, cacando sciolto o possedendo attrici così usate da essere diventate invendibili. Eccovela la poesia dell'asse del palcoscenico. Eccovi le emozioni e la gloria dell'applauso. Non è per la gloria, né certo per il denaro che si fa teatro. Chi lo fa per emozionarsi o per essere qualcun altro vi sta mentendo, sissignore, vi truffa, vi prende per il culo. Non per vivere tante vite si fa teatro, ma per aspettare ogni sera la morte. Quelle lunghe attese guardandomi i piedi, aspettando il mio turno, non mi hanno fatto amare la vita. Questo è un sentimento da ragazzine inquiete. "Amo la vita" è un'ipocrita frase da troie. Io mi decomponevo, in quelle attese, mi turbavo, arrivavo vicino a torturarmi tra quelle tre pareti e mezzo. E lo facevo col piacere immenso di chi sa a quale servizio si sta prestando: la consapevolezza altrui attraverso la propria. Questo si dimentica, in favore sempre della festa, una festa egoista, privata, che è il veleno del nostro tempo. Il teatro è l'unica stanza in cui la Morte e la Vita possono stare contemporaneamente e, senza bisogno di farsi dispetti, si guardano... E cercano di riconoscersi...

venerdì 22 aprile 2011

Il suono della sconfitta

C'è un suono preciso che fa la sconfitta. Simile in tutto a quello delle delusioni ma più sordo, sommesso. Te ne accorgi appena, forse non arrivi a sentirlo davvero. Ma è un suono preciso di un qualcosa che scricchiola e fa un tonfo, breve, secco, nello stomaco... credo. Fatto sta che io l'ho sentito proprio ieri, cristodundio, quel tonfo di merda. In mezzo a quei bambini maledetti, coi loro sorrisi eccitati, vestito come un topo marrone, adobbato come il più coglione degli alberi di natale ma senza palle... Barcollavo per la nausea, sentivo nella bocca il sapore e la consistenza di mesi buttati a non decidere niente. L'aver scelto quel lavoro perché "quello c'era", perché era la cosa più simile all'arte che un depresso si potesse permettere. e quei bambini, ieri, sembravano saperlo, cristodundio. mi guardavano e ridevano, non per le stronzate che a ogni feste gli propino: ridevano di me, del topo gigante che non sa più stare in piedi. Credo di essere svenuto... ma di uno svenimento strano, vigile. Ho sentito il cervello staccarsi e spegnersi ma vedevo e sentivo. La mammaputtana del festeggiato si è avvicinata: "Tutto bene?", mi ha chiesto la troia. E io l'ho vista, d'improvviso, per quello che era: una mamma per sbaglio, sposata a un ricco uomo assente, gheisha nostrana, con un figlio fatto per contratto, per legare il conto del suo uomo, ancora di più, al suo nome di donna che non vuole, che non sa fare niente. Ma con più dignità del sottoscritto, che non ha mai saputo fare la puttana. "Tutto bene?", ho bofonchiato tra i denti per risondere, "Beh potrebbe andare meglio se avessimo 5 minuti". Non mi sono neanche accorto di averlo detto. Probabilmente è stato direttamente il mio uccello a parlare, ma non a titolo di organo sessuale: a titolo di manganello. Volevo piacchiarla col mio membro, niente di più. Sono rimasto un secondo in silenzio, attendendo un urlo, uno schiaffo, una crisi di pianto. Niente. La troiamammaricca mi ha guardato, nemmeno dall'alto in basso, dritto negli occhi e mi ha sorriso come si sorride a un cane che piscia in salone per l'emozione. E' stato lì che ho sentito prima lo scricchiolio e poi il tonfo della sconfitta. Ho capito che sono un cane senza più vergogna, vivo svenuto e nelle mutande ho un pezzo di carne che non serve nemmeno più da manganello. Sono il niente che ho voluto essere a tutti i costi, sconfitto fino alla vergogna, battuto da me stesso a tal punto da essere inservibile per qualsiasi confronto. Sono morto che vive e marcisce.
La signora ha voltato le spalle ed è tornata dalle amiche. I bimbi giocavano soli da qualche minuto: neanche loro avevano più bisogno di me. Sono rimasto al centro del salone, col mio abito da topo gigante. Passato il rumore del tonfo ho respirato profondo, il corpo ha perso tensione e ho pisciato.

venerdì 17 settembre 2010

Silenzio...

Nel silenzio ci sono troppe cose. Non so perché ci si ostini ad associarlo al vuoto... E' pieno il silenzio, c'è più casino che in un cazzo di centro commerciale coi saldi. E ci sono voci che non se ne vanno, che vorresti esser epazzo almeno avrebbe un senso, sentiresti le voci perché sei pazzo e invece non è che le senti. Stanno lì. Lo sai. e le pensi. E pensi a quello che non hai fatto, nel silenzio. Pensi a quanto è tutto vuoto. E pensi che pure 'sto cazzo di vuoto è pieno di roba che non sai come prendere e dove buttare. E pensi a tutte le stronzate che odi in tv: l'ultima volta che l'hai vista, l'ultima parola che le hai detto, a quanto hai sbagliato a non voltarti quando eri lontano perché no, troppo scontato, mentre tu, duro e puro, non ti lasci fregare. E sei andato dritto, allora. E ora quel volto lo cerchi e quella voce è il tormento di ogni silenzio. Cristodiddio se ti senti di merda nel silenzio. Come se ci fosse qualcuno dietro che non è che ti minaccia, né ti parla, nemmeno ti tocca. Senti qualcuno dietro... e sarebbe davvero troppo pensare che è "lei" o la sua immagine o un cazzo di padre o di nonno morto che ti parla. Non è nessuno. Ma qualcuno c'è dietro di te. Non ti tocca. Ma nel silenzio sei lì e sai che dietro hai Signor Cazzodiqualcuno che ti guarda e pensa che sei una merda a fare quello che hai fatto, che è lì che hai sbagliato. Poi percepisci che il Signor Cazzodiqualcuno non ha idea di cosa stia parlando, di dove hai sbalgiato. Ma non ti consola. Potrebbe riferirsi a qualsiasi cosa, lui non sa... Ma non ti consola il fatto che lui spari nel mucchio: pensa che tu, merda, abbia sbagliato in un punto preciso, lui non sa dovve... ma tu si. Ci prende sempre, il signor Cazzodiqualcuno, perché sta zitto. E tu, nel silenzio, lo trovi sempre qualcosa che non dovevi fare...

domenica 12 settembre 2010

Pruriti...

Sto fermo così. Il sole di settembre taglia Roma a metà, al tramonto. Scalda come ad agosto, mentre il vento mitiga, fredda, ma a chiazze. Così sei contemporaneamente accaldato e raffreddato. Sudi e smoccoli a fine sera. Al mattino tutto torna un po' all'estate, all'odore d'asfalto dei marciapiedi, che diresti si stesse sciogliendo assieme alla merda di cane che lo ricopre. Poi ancora il tramonto che entra dalla finestra e taglia la stanza a metà. Sto fermo così e prendo in pieno la banda di luce. E mi lascio tagliare a metà. Respiro profondo. Un rutto che sale, lo fermo. Sbadiglio, piuttosto. Il sole al tramonto mi dà improvvisa voglia di fare. E sono tutto un moto in potenza, dentro fibrillo come una verginella cui stiano sfilando le mutandine profumate di vita inviolata, mentre fuori niente: sto fermo lì a farmi tagliare dal sole. Una metà alla speranza, l'altra alla disillusione. E sto meglio nella seconda, che almeno sa di qualcosa. Agisco, nella disillusione, ci sono, mi sento. Penso al passato come qualcosa di teneramente lontano, lo guardo, sorrido. Penso al futuro come a un niente che non sa ancora di niente. Rido. Ma che cazzo mi rido? Bestemmio tra i denti, ma con soddisfazione. Dio mi sente e non mi capisce, non mi ha mai capito, questa è la verità: le mie bestemmie potrebbero deresponsabilizzarlo, allegerirlo, circoscrivere il campo d'azione. Invece, no, schiavo dell'onnipotenza appena mi sente mi fulmina. Così sto fermo lì, tagliato in due dal sole a beccarmi la punizione: un prurito improvviso all'anello rettale. Tipico di Dio: una punizione di poco conto ma che ti fa sentire forte la precarietà del tuo essere. Cerco di restare fermo lì ma il prurito è forte da farmi pensare soltanto: "bucodicùlo". E divento tutto bucodicùlo, tutto in funzione di una valvola di espulsione di resti. Mi sento decomposto, cristodundìo, mi sento macchina e merda. Macchina, merda e atroce prurito che alla fine mi costringe a muovermi - non volevo, cristodundìo, stavo bene fermo lì diviso dal sole a metà - e a grattarmi il culo con foga. Tanta che dopo non prude ma brucia. Non riesco più a ricordare a cosa pensavo, schiavo dell'ano e punito da Dio. Sempre in combutta, quei due.
Amen.

giovedì 9 settembre 2010

Formiche...

Le formiche fanno subito degrado, fine della vita interiore, abbandono, depressione. Per questo le lascio costruire le loro superstrade sulla mia tavola, per darmi un tono. In realtà sono pulite, le formiche, hanno una logica, un loro metodo. Mi tengono compagnia e si accontentano di poco. Posso passare anche del tempo a guardarle mentre si danno testate o si schivano con invidiabile perizia. O mentre trasportano i leggendari carichi dieci volte più pesanti di loro. E' divertente. Cioè, non è divertente neanche per il cazzo, è roba da alienati ma tant'è: a me piace guardarle. A volte metto un dito sulla loro strada e loro impazziscono per pochi secondi, diresti che sono perdute, ma trovano subito una strada alternativa e, in un minuto o due, sono di nuovo in fila ordinata, doppio senso, regolare velocità di crocera. Non le schiaccio mai. Mai volutamente, s'intende. Le lascio fare. Tutt'al più sposto il cibo infestato, tanto troveranno presto un'altra occupazione. Le lascio essere il segno del mio sfacelo. Le lascio essere la mia decomposizione, la mia lenta e forse lontanissima fine.